La parola all’esperto
Riforma sulla disabilità. Qualche considerazione:
“Tutti i grandi cambiamenti sono semplici”.
Da gennaio 2025 su nove province italiane, tra le quali Firenze, è in atto la cosidetta sperimentazione della
riforma sulla disabilità. Che una normativa per essere attuata debba essere prima sperimentata già la dice
lunga sulle certezze della sua applicabiltà. Inoltre nel decreto milleproroghe, appena varato, è stato previsto
un differimento della durata della sperimentazione: anzichè 12 mesi come era stato previsto per il transito di
tutto il settore dell’invalidità civile dalle Aziende Sanitarie all’INPS e per la fine della sperimentazione, questa
verrà prorogata ulteriormente intanto fino ad inizio 2027. Ciò fa certamente aumentare i dubbi sulla messa
in pratica di questa riforma.
Se si vuole riformare un settore come quello dell’invalidità civile caratterizzato da delicate peculiarità,
dovrebbe essere già in partenza stabilito un chiaro schema di attuazione e soprattutto esserci la volontà di
migliorarlo e di semplificarlo rispetto allo stato anteriore. Per ora invece non c’è chiarezza, non ci sono più
nemmeno riferimenti tecnico-amministrativi per la presentazione delle domande di invalidità; le istanze dal
01 gennaio 2025 sono in netta diminuzione, non perché ci sia un calo del bisogno, ma perché si sono persi i
riferimenti precedenti e quelli attuali ancora non sono in grado di soddisfare le richieste e la loro presa in
carico. Nelle province soggette a sperimentazione, i tempi di attesa tra domanda e visita di accertamento,
tempistiche che le Aziende Sanitarie erano ormai riuscite a riportare sotto controllo, sono già nuovamente
dilatati. I cittadini brancolano nel buio, le Associazioni cercano di fornire loro indirizzi, ma lo svolgimento della
riforma oltre a non essere chiaro nemmeno a chi lo ha progettato è davvero un meccanismo complesso e gli
Enti di Patronato non possono più fare da tramite tra cittadini, certificatori ed INPS. Nelle nove province
soggette a sperimentazione, alle quali da settembre 2025 se ne aggiungeranno altre undici, le domande per
il riconoscimento della disabilità devono essere inoltrate all’INPS da parte dei medici curanti contestualmente
al certificato medico e con l’allegazione della documentazione sanitaria del paziente; di fatto i medici curanti
sono stati chiamati a svolgere un’attività che fino a qualche mese fa era garantita dagli Enti di Patronato. Nelle
province soggette a sperimentazione il personale medico e amministrativo delle Aziende Sanitarie, che aveva
ormai acquisito una esperienza pluridecennale sui processi dell’invalidità civile e della disabiltà, sarà ora
indirizzato verso altre attività, in altri servizi delle stesse Aziende Sanitarie. Questo cambiamento produrrà
una perdita importante di esperienza maturata negli anni che rappresentava un valore importante nel
rapporto con l’utenza. Quindi, mentre nelle province interessate dalla sperimentazione da gennaio 2025 le
ASL si trovano svuotate di un settore imponente di attività, l’Inps al contrario è costretto a bandire numerosi
concorsi regionali e nazionali per sopperire alla mancanza di risorse mediche ed amministrative. Già prima
dell’inizio della fase di sperimentazione della riforma era risaputo che le figure professionali necessarie per lo
svolgimento di queste attività, l’INPS non le possedeva ed era pertanto già in affanno, ma purtroppo
continuerà ad esserlo perché nonostante i bandi emessi, non riuscirà verosimilmente ad acquisire le risorse
necessarie. Le figure specialistiche essenziali per una valutazione multidisciplinare, figure con competenze
idonee a formulare una valutazione collegiale multidisciplinare su menomazioni quali cecità, sordità, disturbi
neuro psichiatrici, problematiche dell’età evolutiva e del lavoro, sono risorse proprie delle ASL, sono da
sempre patrimonio istituzionale del S.S.N. Nelle Aziende Sanitarie si era formata nel corso degli anni
un’attenta organizzazione specializzata al fine di garantire sostegno ed equa assistenza alla cittadinanza. Da
oltre 50 anni norme nazionali e regionali si sono susseguite e integrate, articolando l’assistenza sociale e le
prestazioni che attraverso essa venivano erogate, in percorsi completi e collaudati a sostegno dell’avente
diritto per indirizzarlo dalsostegno scolastico, all’inserimento lavorativo, alla concessione di permessi, protesi,
ausili, indennità di assistenza.
Una riforma è utile se apporta innovazioni vantaggiose; potevano certamente essere inseriti limiti di reddito
per la presentazione di istanze in favore di indennità economiche, ma privare o ritardare la concessione di un
beneficio, di un aiuto nella gestione dell’assistenza di un componente in un nucleo familiare con reddito
medio/basso, significa favorire il passaggio dell’assistenza dalle mura domestiche verso gli ambienti
ospedalieri. Il risultato sarà che quest’ultimi si congestioneranno sempre più e alla fine saranno resi vani
anche i progetti di potenziamento di un’assistenza territoriale voluta e prevista dalle normative degli ultimi
anni.
C’è inoltre, e non in ultimo, un aspetto di imparzialità con la violazione del principio di uguaglianza sociale. I
cittadini nella maggior parte delle province italiane possono continuare a godere di un trattamento socio
assistenziale collaudato, efficiente ed efficace, mentre coloro che sono residenti nelle province soggette alla
sperimentazione, anche appartenenti alla stessa Azienda Sanitaria, sono obbligati a dover sperimentare
proprio nel corso delle loro difficoltà una procedura incerta, lenta, non rodata e sicuramente dispendiosa,
rispetto a coloro che risiedono nella provincia limitrofa.
C’è un qualcosa di iniquo e di irragionevole che deve necessariamente essere corretto.
Firenze, 01 marzo 2025
Dott.ssa Daniela Lepore
Specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni
Specialista in Igiene e Medicina Preventiva
già Direttore Struttura Complessa Medicina Legale Welfare ASL TC-
Chi è la Logopedista?
E’ l’operatore sanitario specializzato nella valutazione e nel trattamento delle patologie comunicativo-linguistiche e della deglutizione.
in che modo e’ utile nei casi di sla?
la logopedista puo’ :
- fornire strategie allo scopo di mantenere una comunicazione efficace
- monitorare le abilita’ deglutitorie al fine di evitare eventuali complicazioni cliniche
- attuare un percorso personalizzato e finalizzato al mantenimento delle strutture deputate alla parola e alla deglutizione
- individuare una comunicazione alternativa e aumentativa alla comunicazione verbale insieme alle altre figure professionali del team multidisciplinare
la logopedista puo’ dare un contributo alla diagnosi precoce dei segni bulbari della sla?
le persone talvolta si rivolgono alla logopedista, prima della diagnosi della malattia riferendo un cambiamento dell’eloquio che non viene percepito dagli altri (familiari,amici etc): l’ anomalia irrisoria della parola rappresenta infatti il sintomo iniziale 8 volte piu’ frequente della disfagia (cit. yorkston et al 1993).
in tal caso la logopedista deve consigliare di compiere ulteriori accertamenti clinici in ambito neurologico.
in quale fase della presa in carico del malato di sla la logopedista puo’ essere coinvolta ?
fin dalla prima fase di diagnosi e valutazione la logopedista dovrebbe far parte del team di specialisti nell’ ottica di un approccio multidisciplinare alla malattia finalizzato al miglioramento della qualita’ di vita della persona colpita dalla sla.
Dott.ssa Jennifer Caverzasi
Il Palliativista
l Dr. Piero Morino è il responsabile medico Unità Aziendale per il dolore oncologico e le cure palliative nonché della rete territoriale dell’Azienda Sanitaria di Firenze. Laureato col massimo dei voti in anestesia e rianimazione, è stato nominato dal Consiglio Sanitario Regionale coordinatore del gruppo territoriale per le azioni di lotta al dolore. Il Dr. Morino autore di numerosi lavori scientifici, è tra i soci fondatori della Fondazione Italiana di Leniterapia (FILE) e ha preso parte al gruppo di esperti che nel 2004 ha redatto la “Carta di Firenze” sulla comunicazione terapeutica.
Le Cure Palliative nella SLA
Le Cure Palliative, secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS) nel 1990, si occupano in maniera attiva e totale dei pazienti colpiti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici. In questa situazione il controllo del dolore, degli altri sintomi e degli aspetti psicologici, sociali e spirituali è di fondamentale importanza. Lo scopo delle cure palliative è il raggiungimento della miglior qualità di vita possibile per i pazienti e le loro famiglie. Alcuni interventi palliativi sono applicabili anche più precocemente nel decorso della malattia, in aggiunta al trattamento causale. In particolare le cure palliative: affermano la vita e considerano il morire come un evento naturale; non accelerano né ritardano la morte; provvedono al sollievo dal dolore e dagli altri disturbi; integrano gli aspetti psicologici e spirituali dell’assistenza; aiutano i pazienti a vivere in maniera attiva fino alla morte; sostengono la famiglia.
In Italia la legge 38/2010 “Disposizioni per garantire l’accesso alle Cure Palliative e alla terapia del dolore” definisce le cure palliative come l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici ed evidenzia che tutti i cittadini hanno diritto ad accedere a questo tipo di cure.
Mentre nella patologia oncologica è più facile ed è disponibile letteratura scientifica per identificare la traiettoria di malattia e i conseguenti approcci di cura, nelle malattie non oncologiche ad andamento cronico – progressivo, come la SLA, ciò non è facilmente prevedibile e questo è uno dei motivi che spiegano la scarsa informazione fornita alla persona malata, sulla possibilità dell’introduzione dell’approccio palliativo, come opzione terapeutica possibile, che dovrebbe essere comunicata fin dalle fasi precoci della diagnosi.
L’evoluzione della malattia porta comunque, nell’estrema variabilità del percorso clinico e del tempo di progressione, il malato e la sua famiglia davanti scelte fra possibilità terapeutiche e assistenziali più o meno invasive, (alimentazione artificiale con PEG, ventilazione mininvasiva, ventilazione assistita con tracheotomia) che vanno ad impattare fortemente sulla qualità della vita della persona malata.
Il tempo appropriato nella comunicazione è quindi fondamentale per evitare di giungere a queste scelte con una capacità decisionale più o meno compromessa ma soprattutto con il rischio di non avere lo spazio e il tempo per elaborarle con la necessaria valutazione individuale, magari condizionati per la presenza di sintomi non controllati, che richiedono decisioni “in urgenza”.
È chiaro comunque che il concetto di qualità della vita non può che essere personale e che“Il medico non può sostituire la propria concezione della qualità della vita a quella del suo malato” (art.4 dei Principi di etica medica europea ).
La condivisione del processo decisionale deve diventare la normale cultura operativa e una prassi quotidiana per la ricerca di condivisione sui contenuti, gli strumenti ed il percorso di presa in carico, in quanto non è possibile condurre alcun percorso di cura, di riabilitazione o di accompagnamento, se non all’interno di una valutazione e nel rispetto dei fattori ambientali e personali e del contesto familiare e sociale di vita della persona.
Dunque la comunicazione, soprattutto in fase precoce di malattia, quando ancora non ci sono indicazioni alla CP, non può riguardare solo le possibilità terapeutiche nei confronti della malattia ma deve affrontare anche il tema del controllo dei sintomi in relazione al mantenimento della miglior qualità di vita possibile indipendentemente dall’evoluzione prognostica.
L’approccio palliativo volto a privilegiare obiettivi di qualità di vita rispetto alla cura della malattia o la sopravvivenza del paziente diviene dunque alternativa di cura possibile, sensata e praticabile, anche in fase precoce di malattia, delineando le cosiddette cure simultanee.
Le cure simultanee rappresentano un modello organizzativo mirato a garantire la presa in carico globale attraverso un’assistenza continua, integrata e progressiva fra terapie causali e Cure Palliative quando l’outcome non sia principalmente la sopravvivenza del malato.
Con il progredire della malattia, l’aggravamento delle condizioni del paziente, l’inefficacia delle cure causali, il curante deve proporre e condividere con il paziente l’eventuale ridefinizione degli obiettivi di cura.
Le finalità sono: l’ottimizzazione della qualità della vita in ogni fase della malattia, attraverso una costante attenzione agli innumerevoli bisogni, fisici, funzionali, psicologici, spirituali e sociali del malato e della sua famiglia. La garanzia di una continuità di cura attraverso una gestione flessibile del malato e dei suoi bisogni, con appropriati obiettivi in ogni singola situazione, attraverso la valutazione, pianificazione, coordinamento, monitoraggio e selezione delle opzioni e dei servizi: la qualità delle cure deve essere garantita in ogni setting assistenziale, in ospedale ma soprattutto al domicilio del paziente, se desiderato e possibile, o negli Hospice, le strutture residenziali di Cure Palliative, evitando accessi al pronto soccorso e ricoveri ospedalieri con procedure diagnostiche e terapeutiche invasive, spesso inappropriate.
È fondamentale presentare le cure palliative come il percorso clinico/assistenziale più appropriato nella fase di malattia in atto affinché il malato ed i suoi familiari non vivano sentimenti di abbandono terapeutico ma, al contrario, percepiscano la prosecuzione di un percorso di cura con finalità adeguate all’evoluzione clinica della malattia.
La scelta di questo percorso, esplicitato e riconosciuto dal paziente, dalla sua famiglia e dagli stessi curanti, può essere comunque in ogni momento rivalutato. La garanzia delle continuità delle cure e della integrazione fra cure attive e palliative è fondamentale per evitare il senso di abbandono che spesso il malato e la sua famiglia vivono nella fase avanzata della malattia.
Le cure palliative non sono e non devono essere considerate, semplicemente un percorso a cui avviare il malato quando ormai ”non c’è più niente da fare” bensì il sistema di cure appropriato quando, al progredire della sintomatologia, la persona malata, consapevole e informata sulla fase di malattia e sulle possibili opzioni terapeutiche, decide che l’obiettivo principale delle cure diventa non più il controllo con ogni mezzo della evoluzione clinica ma il mantenimento della miglior qualità e dignità della vita possibile.